| 24 giugno 2007 La tortura come «metodo» nelle indagini sulle Br Il capo operativo dei “Cinque dell’Ave Maria”: «Negli ultimi anni, la polizia non si è mai trovata in frangenti tanto estremi se non al G8, forse»Matteo Indice
Per liberare nel 1982 il generale americano Dozier rapito dalle Br si arrivò alla «tortura, scientifica, di due fiancheggiatori, messa in pratica in una chiesa sconsacrata a Verona».
Questo in sintesi il metodo che portò alla risoluzione del sequestro Dozier raccontata da Salvatore Genova, all’epoca dei fatti il commissario della Digos genovese “aggregato” all’Ucigos che si occupò proprio delle operazioni di liberazione del generale e che nei giorni scorsi ha rivelato l’esistenza della squadra di torturatori, nota come i “Cinque dell’Ave Maria”. Il Secolo XIX ha intervistato in esclusiva sia Salvatore Genova sia il capo operativo della squadra di torturatori, che per ora preferisce rimanere sotto anonimato.
Il generale americano James Lee Dozier, vicecapo della Nato in Italia venne rapito dalle Br a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato a padova il 28 gennaio 1982. I metodi usati per raggiungere questo risultato, secondo il super-funzionario , impressionarono «persino la Cia».
Dopo la liberazione del generale, almeno 100 milioni delle vecchie lire furono distribuiti “informalmente” fra alcuni “pentiti”, le cui rivelazioni diedero impulso decisivo alla soluzione dell’inchiesta: gli stessi pentiti, ovviamente, non rivelarono mai nulla di preciso sulle sevizie. È questa la ricostruzione, dettagliata e inedita, raccolta dal Secolo XIX direttamente da due dei funzionari di polizia che parteciparono alle fasi più delicate di quell’operazione.
Di uno, Salvatore Genova abbiamo rivelato nei giorni scorsi l’identità. L’altro l’abbiamo raggiunto a Napoli, ed è il superpoliziotto che guidava saltuariamente “Cinque dell’Ave Maria”, una squadra specializzata in interrogatori violenti. Ne rispettiamo, al momento, la richiesta dell’anonimato.
Ma le loro dichiarazioni colmano la lacuna che il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per il pestaggio dei br sequestratori (ma non dei fiancheggiatori, ndr) descrissero nella requisitoria e nella sentenza di primo grado. Rimarcarono che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado».
Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli.
«I metodi forti sono stati usati in emergenza – ha affermato il super-funzionario- e sempre dopo aver avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni sarebbero state decisive per salvare delle vite».
«La tortura – racconta il super-poliziotto- è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare o staccare il biglietto, e come un chirurgo che ha iniziato un’operazione, devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti».
«Negli ultimi anni, la polizia - continua il capo operativo dei “Cinque dell’Ave Maria”- non si è mai trovata in frangenti tanto estremi se non al G8, forse. Ma lì è mancata la professionalità, sono state usate le persone sbagliate, i tempi sbagliati, specie per l’irruzione alla scuola Diaz».
|